BIOGRAFIA

ROBERTO RIMINI. IL DISEGNO DELLA VITA

Maria Giovanna Rimini

  • 1888 - 24 marzo

    Roberto Rimini nasce a Palermo, secondogenito di Giuseppina D’Antonio, napoletana, e di Emanuele, ebreo veneto giunto da poco in Sicilia (in qualità di direttore generale dei Grandi Magazzini Coin) dopo un soggiorno a Napoli dove aveva appunto conosciuto e sposato la moglie.

  • 1892

    La famiglia si trasferisce a Catania, dove risiederà stabilmente, in un appartamento all’ultimo piano del palazzo Beneventano, nel cuore della città. Qui Rimini trascorrerà l’infanzia e tutta la prima giovinezza e qui raggiungerà la consapevolezza di una ineludibile vocazione: quella di essere un pittore.

    È importante sottolineare il contesto familiare che concorre al costituirsi dei lineamenti umani e psicologici della sua personalità, poiché è indubbio che, al di là degli specifici dati caratteriali, vi fosse una trama di sensibilità e valori su cui quelli si erano sviluppati, comune denominatore trasmesso dai genitori ai figli (nove in tutto, sei maschi e tre femmine).

    Un elemento è riconducibile al profondo senso di appartenenza, coesione e quasi di sacralità della comunità familiare propri della sua radice ebraica, e forse, ancora a questa, è da ascrivere ciò che è sempre stato indicato come uno dei suoi tratti più accattivanti, una sorta di pacata mitezza che è più giusto definire «la forza della pazienza».

    Pazienza nel sopportare ogni difficoltà e amarezza, senza inasprirsi, ma forza nel proseguire senza esitazioni lungo la via prescelta, non vana ostinazione ma impegno morale verso se stesso: «questo io voglio essere» e verso gli altri: «questo di me agli altri posso dare».

  • 1905 - 1907

    Porta a compimento gli studi tecnici ai quali lo aveva avviato il padre con l’intento di rendere più agevole il proseguimento con quelli di ingegneria.

    Ma già in quegli anni acerbi, attratto da matita e pennelli, aveva iniziato a sperimentare le proprie attitudini, ancora forse come un gioco, ma già il suo preferito, durante gli ozi e le scorribande in campagna, intorno alla villa di Barriera del Bosco dove la famiglia trascorreva i mesi estivi.

    Decide così di fare di questo diletto il lavoro della sua vita e, riuscendo a superare l’iniziale dissenso del padre, ottiene di iscriversi all’Istituto di belle arti di Napoli.

    In uno scritto autobiografico (note estemporanee e mai rese ufficiali) rievocando quell’iniziale dissenso («uno scossone nella serenità della mia famiglia») così precisa: «mio padre non si oppose decisamente, solo temeva maledettamente che le mie attitudini fossero men che mediocri … e l’idea di un fallimento gli faceva paura». Quel «maledettamente» (cancellato poi da un tratto di penna, ma perfettamente leggibile) induce ancora a considerare come quella scelta si sia configurata non come facile evasione, ma come una sfida che dà ragione dei lunghi anni di studio ai quali si dedicò.

    A Napoli si ferma per due anni come alunno nella sezione diretta dallo scultore Stanislao Lista. Qui ha modo di educare la naturale disposizione al disegno incardinandola in una ben definita strutturalità

    Questo primo tirocinio napoletano non è menzionato nei suoi ricordi, forse perché considerato una ‘preistoria’; ma da tale preistoria deriva l’eredità di una metrica compositiva su cui si leverà poi il canto dei colori e della luce, e il suggerimento ad incanalarsi nel solco del realismo del secondo Ottocento.

    Rari documenti risalenti a questa fase sono Caldarroste, vera scena di genere, e il Ritratto del fratello Mario.

  • 1907 – 1912

    Volendo andare avanti nel percorso della formazione attraverso più stimolanti esperienze, si trasferisce da Napoli all’Accademia di belle arti di Venezia. Qui, come scrive, «inizia il periodo magico delle grandi speranze e delle belle illusioni», segue i corsi per la durata dei sei anni sotto la guida di colui che riconoscerà come il suo maestro: Ettore Tito che, già dal 1895, era professore della classe di figura.

    Al di là dalle entusiastiche valutazioni degli ammiratori (che lo salutavano come il nuovo Tiepolo) e dalle critiche anche aspre dei detrattori (che lo consideravano un passatista), Tito fu certamente un buon maestro per un alunno così avido di apprendere.

    Anzitutto sul piano pratico, trasmettendogli quella padronanza di mezzi che gli consentirà di esprimersi in tutte le più varie tecniche, dalla sanguigna all’acquerello, all’olio, al pastello, all’incisione; inoltre sul piano ideale, trasmettendogli un valore che egli stesso aveva a suo tempo appreso e condiviso: «il diritto di essere indipendenti, di essere sinceri, di essere sè stessi».

  • 1912

    Mentre porta a compimento con l’ultimo anno i corsi dell’Accademia è chiamato per il servizio di leva militare con sede a Piacenza. In una lettera si rammarica per quelle «lunghissime ore buttate via». Nel dicembre dello stesso anno è di nuovo a Venezia e scrive rivolgendosi allo stesso amico: «cerco di guadagnare il tempo perduto con una vita di furioso lavoro, per prepararmi degnamente alla prossime esposizioni … sto facendo dei lavori per Roma e per la mostra di Firenze dove, in via eccezionale ho ottenuto di poterne mandare quattro … altro che passeggiate in bicicletta … dalle nove alle tredici ho la modella, alle 16 una vecchia e sino all’ora del pranzo una ragazzina sulla quale faccio dei disegni che mi interessano per lo studio».

    Non possediamo alcuno dei lavori di questo momento; ma è significativo che pur sentendosi in grado di affrontare le prime prove in pubblico continuasse nell’impegno dell’esercizio per affinare le proprie capacità.

  • 1913

    Ancora alla stessa volontà di consolidare ed arricchire il proprio bagaglio di formazione si deve la scelta di un anno di perfezionamento svolto a Roma.

    L’Autoritratto a sanguigna, primo documento di un genere al quale si dedicherà tanto da farne una delle sue scelte tipiche, è da ascrivere a questo soggiorno romano, poiché è presente, accanto alla firma, l’indicazione del luogo in cui è stato eseguito. La perizia con cui il mezzo è usato rende plausibile il giudizio positivo espresso nei suoi confronti da Adolfo Venturi: gratificante incoraggiamento col quale si conclude il lungo iter di formazione.

  • 1914

    Rientra nella sua città con l’intento di dare inizio sistematicamente al lavoro. Qui è subito riconosciuto ed apprezzato, tanto che gli viene chiesto di collaborare con la rivista «Rassegna Siciliana».

    Grazie a ciò possediamo almeno il ricordo di alcuni ritratti, che, pur nei limiti della riproduzione, lasciano intravedere l’appassionato studio dei volti realizzato con pennellate di immediata sicurezza nelle costruzione e caratterizzazione espressiva.

  • 1915 - 1918

    Lo scoppio della prima guerra mondiale interrompe drammaticamente questa fase iniziale.

    Viene richiamato e partecipa per tutta la durata delle operazioni, come soldato semplice prima e in seguito col grado di Capitano del Genio.

    Da «soldato pittore» mentre si fa apprezzare per lo spirito di sacrificio con cui affronta le imprese militari, mette al sevizio di queste anche le proprie capacità, come ricorda: «qualche manifestazione pittorica ci fu anche durante quel periodo con disegni panoramici ripresi dal Dracken per le artiglierie e con un dipinto, sempre dall’alto del Carso fino al Castello di Miramare. Ebbi per questo dipinto lusinghiere soddisfazioni artistico militari».

    Il dipinto in questione fu donato in omaggio al Re, e le «soddisfazioni» militari si concretizzeranno, alla fine delle operazioni con la concessione della Croce al merito di Guerra.

  • 1919 - 1927

    Ottenuto il congedo medita in un primo momento di stabilirsi a Venezia, ma come dice «una vampata d’amore per la mia terra mi ricondusse in Sicilia e qui, vicino a tutti i miei, ripresi a lavorare con grande entusiasmo». Le esperienze accumulate negli anni della formazione si concretizzano quasi esplodendo dopo la lunga pausa forzata, in una serie di opere fra le più creative della sua produzione.

  • 1923

    Nel corso di quest’anno collabora con la rivista mensile «Siciliana» diretta da Natale Scalia come quest’ultimo annuncia a pagina 50 del numero di gennaio: «il cartello di Siciliana (a due fogli a otto colori) che è apparso e apparirà nelle più grandi città d’Italia è opera del pittore Roberto Rimini, il quale per l’occasione si è trasformato in litografo… di Rimini che è per così dire il pittore di redazione avremo modo di parlare con ampiezza».

    Le piccole riproduzioni che corredano varie pagine presentano una grafia che richiama stilemi liberty, che di certo aveva avuto modo di acquisire sia a Venezia che a Roma, ed ai quali fa ricorso proprio in relazione alla loro funzione illustrativa e decorativa.

    Nella stessa rivista (che ebbe vita brevissima) troviamo anche la riproduzione di un ritratto a carboncino di Giovanni Verga.

    I nomi di Verga e Scalia, ai quali si aggiungono quelli di Capuana, De Roberto, Villaroel, Ercole Patti, Vitaliano Brancati, ed in seguito quelli di Manzella, Cardile, Caioli, fanno parte di una frequentazione in cui si intrecciano sentimenti di fraterna amicizia e ricerca di un respiro culturale con cui dare ossigeno alla propria vita d’artista.

    Egli stesso lo testimonia:«i miei amici d’allora erano principalmente letterati e con quasi tutti avevamo fraternizzato durante gli indimenticabili pomeriggi domenicali in casa De Roberto».

  • 1924

    Espone per la prima volta dopo il suo rientro a Catania nei saloni di Palazzo Biscari.

    Di tale evento possediamo solo qualche ricordo fotografico e la citazione fatta da De Roberto nella presentazione della mostra successiva, del 1927.

  • 1925

    Sposa Adele Pericone, conosciuta durante un soggiorno a Catona; dal matrimonio nasceranno cinque figli.

    Il soggiorno in Calabria, dove si era recato su invito dell’amico Saverio Fiducia (divenuto in seguito suo cognato) e dove ritornerà spesso, fu un’occasione felicemente fruttuosa anche per il suo lavoro come egli stesso dice: «il posto veramente incantevole mi suggerì una fioritura di opere tra le più significative di tutta la mia attività».

  • 1927

    Conclude il primo intenso periodo di attività con la mostra allestita nel salone del Palazzo comunale. Evento di singolare risonanza perché accompagnato dalla presentazione affettuosa e convinta di Federico De Roberto. Ci sono pervenuti una metà, circa, dei quadri che la componevano, di altri si conserva il ricordo nelle riproduzioni del piccolo catalogo.

    Alcune di tali opere erano state realizzate nella quieta solitudine della campagna di Milo, il paese etneo dove in quel periodo amava spesso rifugiarsi, in compagnia di Scalia e dello stesso De Roberto, esperta guida alla scoperta dei luoghi più suggestivi.

  • 1927 - 1934

    Si reca con la famiglia a Taormina per un soggiorno estivo, ma quell’estate durerà otto anni.

    È facile comprendere quali e quanti elementi di seduzione potesse offrire ai suoi occhi la magia visiva del luogo e, al suo spirito, l’occasione di un «buen retiro» più consono alle sue esigenze di vita. Nel corso di questi anni la produzione si distingue in due filoni; uno costituito da opere di piccolo formato (come Montevenere o Portatrice d’acqua) che gli erano state suggerite dalle richieste della particolare committenza di turisti stranieri; molte di queste infatti, come egli stesso dice fra soddisfazione ed amarezza, «ebbero un destino vagabondo». Soddisfazione per l’apprezzamento di un pubblico anche cosmopolita, amarezza per la consapevolezza che delle sue creature sparse per il mondo si sarebbe perso il ricordo. Bisogna d’altro canto dire che nella ricerca di tante opere portate via in Francia, Germania, Inghilterra, ma anche nella stessa Italia, si è incontrato un insormontabile ostacolo nell’assoluta mancanza d’abitudine (purtroppo estranea alla mentalità dell’autore) di registrare in modo minimamente sistematico la data della vendita o il nome e l’indirizzo dei compratori.

    L’altro gruppo è costituito da dipinti e disegni in cui appare più libero di esprimersi nella misura di maggior respiro a lui più congeniale. Basta ricordare soprattutto, come opere che hanno assunto «una valenza storica» nell’ambito della produzione, le tele che si conservano all’Hotel Timeo: Al Sole, Trebbiatura, Al pozzo, storica perché in esse si fissa un’iconografia legata al tema del lavoro (leit-motiv che riprenderà nelle sanguigne e nelle incisioni) così tipicamente sua dal renderla inconfondibile.

  • 1934

    Durante l’ultimo anno del soggiorno a Taormina riceve l’incarico per quattro pannelli destinati a decorare la sala delle riunioni (ex cappella) del Palazzo dei Chierici, allora occupato come sede del Littorio. Sappiamo che le tele si trovavano in loco di certo fino al 1937, come testimonia un articolo del 24 agosto di quell’anno sul «Popolo di Sicilia».

    Ma oggi sono perdute, disperse o forse distrutte quando, dopo la fine della guerra, la sede fu occupata dall’esercito americano.

    Di una sola di esse, I mietitori, che rievocava la battaglia del grano, si conosce una riproduzione, sempre sul «Popolo di Sicilia» del 23 Dicembre 1934.

    Questi pannelli insieme ad altri che decoravano la caserma della Guardia di Finanza anch’essi perduti inducono a riflettere su quale sia stato, nel ventennio, il rapporto dell’artista con la cultura del regime.

    A tale riguardo bisogna tenere presente anzitutto che per sua indole il pittore era alquanto distaccato da specifici interessi e problematiche politiche, per istintivo disincanto e per il rifiuto a sminuire la propria autonomia nella ricerca di appoggi e favori. Quelle commissioni costituivano per lui occasioni di lavoro.

  • 1935

    Rientrato a Catania si presenta nuovamente al pubblico con una personale di disegni tenuta presso la galleria «Arbiter». La mostra raccoglieva lavori eseguiti a Taormina, ed altri che testimoniavano la ripresa di contatto con la realtà del mondo contadino ‘cercato’ nei paesi e campagne intorno alla città, come l’Abbeveratoio a Palagonia, Fiera di Vizzini, Inizio di lavoro. Il disegno si era sempre affiancato, nella produzione, alla pittura ad olio, ma dopo l’immersione quasi inebriante nel colore degli anni di Taormina, la scelta di questa mostra sembra rispondere al bisogno di un colloquio più intimo, purificato dalle componenti emotive del colore.

  • 1937

    Riceve la nomina di preside del Liceo Artistico, carica che mantiene fino al 1940.

  • 1939

    Anno denso di attività. Viene inaugurata la Casa del Mutilato per la quale, nella sala delle riunioni, aveva realizzato due grandi pitture murarie a monocromo rievocanti due episodi della grande guerra: In marcia e Sull’Argine.

    Vengono inoltre realizzati e sistemati nei locali del Caffè Lorenti sei grandi pannelli a sanguigna. Quando quello fu distrutto (nel 1948) i pannelli, secondo la testimonianza dei familiari, furono donati al Comune di Catania e quindi destinati al Castello Ursino. Ma di essi oggi non è rimasta traccia.

    Nel dicembre dello stesso anno realizza la cartella Sicilia, comprendente dieci litografie, nelle quali, con versatile abilità tecnica, fissa, nella fermezza del segno indelebile, alcuni dei temi a lui più cari.

    Ancora di quest’anno è la pubblicazione di Mandrerosse: paesaggi, uomini e canti di Libertinia del maestro Francesco Pastura, in cui Rimini è presente con la riproduzione di tredici illustrazioni di soggetti campestri.

  • 1940

    Riceve l’incarico per l’insegnamento di anatomia all’Istituto d’arte di Catania.

  • 1941

    Gli viene conferito l’incarico di sovraintendere ai lavori per la decorazione dell’Aula magna del Palazzo delle Scienze. Per questa esegue il grande dipinto a tempera monocroma rappresentante i Padri della Scienza.

  • 1942 - 1943

    Per allontanarsi dalla città nella fase più pericolosa della guerra in corso, si rifugia con la famiglia a Zafferana. Anni di drammatica inquietudine in cui la tragedia collettiva incide con asprezza anche nella vita quotidiana di chi ha solo vissuto con un mestiere, quello di pittore, per sostenere il peso della famiglia. Ma confortato dal ritrovarsi a contatto con quel paesaggio etneo da sempre amato, prosegue con dedizione la sua fatica. Nelle difficoltà materiali per portare avanti il lavoro lo soccorrono amici fraterni spinti dall’affetto e dalla stima.

  • 1944

    Molti dei lavori realizzati in questo periodo confluiscono nella personale tenuta a Palazzo Biscari patrocinata dal Circolo cultori e amatori d’arte. L’esposizione che si colloca in un momento cronologico quasi centrale del suo percorso, raccoglieva un nucleo considerevole di opere, circa 70 fra olii, pastelli, tempere e sanguigne. Luigi Prestinenza, da sempre fra gli amici che si trovavano al suo fianco, così commenta questo evento: «Rimini, dopo lunghe e travagliate soste… ha voluto riaccostarsi a noi per confermarci ancora una volta che il mondo è pure fatto di luce».

  • 1949

    Partecipa ad una mostra di artisti siciliani contemporanei, tenutasi a Palermo e Catania e organizzata dalla Biennale di Venezia.

    In questa occasione espone la Marina a Santa Maria La Scala (oggi di proprietà della Camera di Commercio), come testimonia il cartellino ancora presente sul retro, ed un Autoritratto e un Bozzetto, oggi non identificabili.

    Allontanandosi ormai dal travaglio e dalla stasi della guerra, Catania vive una fase di rinnovata attività in ogni campo ed in questo clima di ripresa rifioriscono anche interessi ed iniziative culturali. Per quanto attiene al campo dell’arte, svolge un ruolo notevole il Circolo artistico che, come ricordava Sciavarrello, «era un crogiuolo di queste nuove ansie e di questo furore, in mezzo a cui Rimini entusiasta e discreto, come gli dettava la sua indole, viveva partecipe».

  • 1951

    È infatti proprio al Circolo artistico che si susseguiranno con cadenza annuale numerose personali del pittore, accolte sempre con vivo interesse, nel 1951, nel 1952, nel 1953.

    La prima fra queste, quella del 1951, che trova eco in numerose recensioni sui giornali del tempo, è presentata da Enzo Maganuco lo studioso che merita un ricordo particolare come presenza assidua e significativa nella vita di Rimini.

    La sua figura dinoccolata e nervosa è emblematicamente presente (ben riconoscibile in una foto dell’inaugurazione) alla prima mostra, quella del 1924, così come in quella del 1966, l’ultima delle personali, per la quale scrive la presentazione.

    Assidua, si diceva, perché nel percorso tra queste due tappe egli è stato una presenza costante, non solo in ogni successiva manifestazione, ma anche, col suo temperamento appassionato e generoso in ogni momento della vita. Ma anche e soprattutto, presenza significativa: perché Maganuco ha saputo mettere a fuoco gli intrinseci valori del suo linguaggio figurativo, svelandone, al di là dalla suadente gradevolezza delle immagini e dei ben riconoscibili contenuti (che gli procurarono una facile popolarità) la complessità culturale ed il travaglio della ricerca ed elaborazione stilistica, di cui l’apparente semplicità è punto di arrivo e difficile conquista.

  • 1952

    Nell’estate di quest’anno si allontana dalla città per trascorrere la villeggiatura ad Acitrezza; ancora una volta, come già era accaduto, questo «anti-Ulisse» si lascia volentieri catturare dalle sue sirene: dalla malia di un luogo in cui mito e poesia si intrecciano arricchendo di suggestioni la bellezza della natura (allora non ancora contaminata), dalla vita umile dei suoi abitanti scandita dal ritmo antico della vita del mare. Dopo la sosta nella festosità ridente di Taormina, dopo la quiete cercata nella sua casa del borgo, appartata, quasi alla periferia della città, è qui che forse ha veramente trovato «il paese che gli somiglia»: qui infatti trascorrerà gli ultimi decenni della sua vita.

    Da questo momento in poi la sua pittura sarà legata all’ispirazione che gli giunge dalla particolare realtà che lo circonda.

    Il paese con le stradine che sboccano al mare, con le piccole disadorne case dei pescatori, solo ravvivate da qualche velatura di intonaco colorato, la chiesa, quasi sul porto, con lo slargo della piazzetta dove, nei giorni di burrasca si raccolgono le barche fin quasi al sagrato, in cerca di protezione.

    E infine gli attori principali di questo scenario: i pescatori dai corpi asciutti, temprati dalla fatica, i volti quasi arsi dal sole e dalla salsedine e sempre, soprattutto, il mare.

  • 1954

    Personale alla Botteghina.

  • 1955

    Personale al Circolo della stampa.

  • 1956

    Personale di disegni al Circolo della stampa. Come era avvenuto nel 1935, Rimini affida ad una esposizione di soli disegni l’occasione per continuare il colloquio col pubblico. L’amore per il disegno Rimini se lo portava nel cuore, come radice profonda dalla quale aveva iniziato il suo cammino, quasi come l’amore per i suoi cari. Commovente prova di ciò è il ritratto della madre, eseguito nel 1915, riprodotto sul depliant del catalogo, in cui la morbidezza del tratto ha la leggerezza di una carezza.

  • 1956 – 1966

    Nell’arco di questi anni, è presente solo in collettive, le più rilevanti delle quali erano quelle organizzate dal Sindacato d’arte, nei locali del Circolo della stampa e in seguito nel castello medioevale del comune di Acicastello.

    È inoltre impegnato in grandi imprese decorative.

  • 1959

    «Una grande luce nella chiesa di Pio X sgorgata dal pennello di Rimini: antico e moderno sapientemente fusi nella pittura murale dell’abside».

    Così Campanella commenta la inaugurazione dell’opera (su «La Sicilia», 9 ottobre).

  • 1964

    Nel mese di aprile è portata a compimento ed inaugurata la seconda impresa monumentale: l’affresco che decora l’abside della chiesa di San Rocco ad Acireale.

  • 1966

    In occasione dell’inaugurazione dei locali della Pro loco di Acitrezza tiene un’ultima sua personale: un olio, sei tempere, molti disegni. Le opere di quest’ultimo decennio tuttaltro che denotare segni di stanchezza si avvalgono di una carica creativa che scaturisce da una ancora inesausta tensione di ricerca.

  • 1971 - 16 Febbraio

    Roberto Rimini si spegne, quasi all’alba di questo giorno, concludendo il percorso della sua lunga e operosa vita.

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