SCRITTI SU RIMINI

Giuseppe Frazzetto in Solitari come nuvole

Paesaggi, marine e temi rurali dominano la produzione di Roberto Rimini (Palermo 1888-Acitrezza, Catania 1971), pittore sostanzialmente incompreso proprio dallo stesso ambiente intellettuale catanese che ne esalta le doti e lo propone come modello. L’ex futurista Giacomo Etna in un articolo del ’24 l’addita come rappresentante (con Alessandro Abate, Nitto Condorelli, Giuseppe Marletta e Giuseppe Fichera) d’un possibile rinnovamento pittorico in senso sicilianista, basato su una variante verista: «figure in rilievo», con «tratti decisi» tali da farle «emergere dal paesaggio che le circonda», conferendo loro «un marchio potente di umanità e di mistero». Rinnovamento necessario perché, ahimè, «la Sicilia ha avuto in Giovanni Verga il suo più grande cantore, ma non ha avuto colui che esprimesse la gioia del suo sole e dei suoi cieli divini».

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L’implicazione verghiana è un leitmotiv della stampa su Rimini: la presenza ricorrente di figure di contadini e di pescatori nei suoi quadri sembra autorizzarla, ma la pittura di Rimini rifugge dalla drammaticità, il riferimento al mondo dei vinti è in fondo esteriore, e l’insistervi rivela un’incomprensione – ma soprattutto il desiderio di individuare un interprete pittorico dell’immagine, insieme nostalgica e arrogante, del primato della Sicilia rurale, fiera del tradizionale svolgersi della propria economia contadina. Rimini (allievo a Venezia di Ettore Tito) è comunque il portatore a Catania delle «ombre colorate». Su questo versante altri stimoli per l’ambiente etneo vengono dalla pittura chiara e tonale di Antonino Villani (Catania 1881-1966), tornato nel ’23 dopo una lunga esperienza genovese.

(in Solitari come nuvole, Catania 1988, Giuseppe Maimone Editore)

Lucio Sciacca in Catania gli anni belli

Nell’ambito culturale e artistico, emerge un giovane pittore di talento: Roberto Rimini, palermitano di nascita, catanese d’adozione.

La sua personale al Circolo Artistico si impone all’attenzione del pubblico e dei critici che ne scrivono in termini lusinghieri: «In questa suggestiva mostra si ammira la correttezza dei disegni realizzati con tecnica sicura, con tono largo e vigoroso, e tra essi, oltre all’interessante studio di anatomia e dei nudi ben riprodotti, si notano alcuni studi di teste che dimostrano lo sforzo felicemente impiegato dall’artista nello scrutare, attraverso la forma esteriore, il contenuto psichico del soggetto. Paesaggista colorito e romantico, Roberto Rimini s’incammina per una strada che lo porterà lontano, verso il sicuro successo…».

(in Catania gli anni belli, Catania 1992, Giuseppe Maimone Editore)

Lucio Sciacca in Uomini e fatti di Catania

Il preambolo

La telefonata sopraggiunse il 16 febbraio 1971, alle sette del mattino: l’ora inusuale, di un martedì freddo e senza sole, ti mette in apprensione prima ancora d’alzare il ricevitore.

Mia moglie corre per evitare, col ripetersi del trillo, ch’io venga svegliato.

Dall’altro capo del filo, una voce tremula di pianto tenta di comunicarti la ferale notizia. È Graziella Rimini. Qualche ora prima, l’amato padre, il grande Roberto, ha chiuso all’improvviso, serenamente, la nobile esistenza.

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Nuccia resta senza fiato, non sa che dire, che fare, mentre un pensiero emerge fra tanto scompiglio: – E ora, come lo dico a Lucio?

Già, come lo dico?

Ma Lucio chi è? Uno dei figli? Un fratello dello Scomparso? Un parente stretto?

Niente di tutto questo.

Lucio è un giovane amico che, standogli vicino, ha imparato ad amarlo con sentimento di profondità filiale; standogli vicino, ha sentito il fascino dell’Arte sua eccelsa e della sua grande anima; standogli vicino, ha preso a guardare con occhi incantati i tramonti infuocati sul mare di Trezza.

Lucio è un amico che ha sempre visto in Roberto Rimini un padre spirituale, un punto di riferimento, un maestro di vita.

E ora, come lo dico a Lucio?

Mia moglie, tornata in camera, tenta di nascondere il volto rigato di lacrime.

Sono sveglio, chiedo conto della telefonata.

La risposta è solo questa: – Ha telefonato Graziella Rimini.

Sono attimi spaventosi, d’immediata realizzazione, distruttivi.

E non vorresti capire, e vorresti trovare una scappatoia, un rifugio, un qualcosa che ti dicesse all’istante: non è vero, è un brutto sogno.

Passano i minuti e, invece, capisci; persiste il vuoto ma, a poco a poco, il pensiero acquista equilibrio, dice che l’evento si è consumato; l’uomo che sapevi vivo fino a pochi minuti prima non è più; dice che con lui se n’è andato l’artista, il padre di famiglia, il gentiluomo per definizione; dice che l’essere meraviglioso che giudicava tutti generosamente, che tutto affrontava con grazia, che tutto illuminava col suo sorriso è morto, e della sua presenza, della sua compagnia, della sua amicizia e del suo affetto non puoi più arricchirti.

– Nuccia, corro subito a Trezza!

– Ti accompagno! – risponde mia moglie – Purtroppo, non c’è bisogno di correre.

E intanto, telefono a Turi Nicolosi, che, subìto il colpo, stava per chiamarmi.

Andammo insieme.

La famiglia e le persone nel frattempo accorse, sono sprofondate in uno stato di doloroso stupore; donne in lacrime recitano sottovoce preghiere; volti di amici sofferenti nel cordoglio; tentativi di esprimere parole di senso compiuto che restano a mezz’aria: la signora Adele è distrutta; Memi ha la faccia della tragedia greca; Pina, Graziella, Rosalia sono pietrificate; Laura dovrà arrivare da Parigi.

In punta di piedi, entriamo nello studio trasformato in camera ardente. Lui sembra riposare fra le sue opere non tutte ultimate, ha conservato la serena bellezza del volto. Turi ed io ci teniamo per mano: – Ora si sveglia! – pensiamo. Ma il pensiero non si fa parola perché la realtà è intorno a noi, nel groppo in gola, nella voglia di piangere.

Gli sono accanto Francesco Contrafatto e Mimmo Tudisco, intenti a prendergli il calco della mano destra: lavoro delicato, dai due compiuto con tecnica raffinata, e grande amore per il maestro improvvisamente perduto.

Con le prime ore del giorno, la notizia si diffonde, il rimpianto è unanime, sincero, profondo.

Il quotidiano “La Sicilia” si fa carico di informare i propri lettori con servizi d’ampio respiro, come si conviene all’uomo e all’artista di quel calibro.

Il primo, di spalla nella pagina Giorno e Notte, con fotografia e avvio del pezzo in neretto, è di Riccardo Campanella: “…Roberto Rimini è morto. Ma si è spento il suo corpo, perché l’artista, la sua pittura illuminante, la sua bontà, il suo essere cristiano non moriranno mai. In casi come questo, si scrivono parole e parole, ma le nostre vogliono essere la quint’essenza del pensiero guidate dal sentimento. Parole vere, insomma, dense di significato”.

L’indomani, 17 febbraio, il capocronaca, corredato d’altra bella immagine, è di Salvatore Nicolosi: “…Roberto Rimini, pittore onesto, pittore verghiano, non tradì mai il proprio stile, e fu sempre se stesso (…) uomo sobrio, uomo leale, uomo semplice e buono, non conobbe mai l’intrigo e si tenne sempre lontano dalla maldicenza. Aveva una sola civetteria, quella di considerarsi “vecchio”: – Ai miei tempi…! – diceva – e si faceva assalire dalla malinconia per quei suoi tempi ormai andati…ma i suoi occhi chiari sorridevano, come a voler dire: – Dovrei parlar male di questi nostri tempi, ma non lo faccio!”.

Il 16 marzo, trigesimo dell’evento, su tre colonne, corredato dell’immagine d’una sua stupenda marina, uscì il mio corsivo nel ruolo di capocronaca: “…Lo piansero tutti, perché col grande artista, col signore del pennello, se n’è andato il signore dell’anima, dei modi, del comportamento; se n’è andato un uomo giusto, un uomo buono, dal grande cuore senza fiele. Roberto Rimini fu un uomo eletto, fedele e coerente coi suoi principii del pulito e retto vivere. Era un gioia dell’anima stargli vicino, sentirlo parlare, vederlo sorridere, seguirlo lungo i sentieri della rievocazione storica, sia riguardante la musica classica, sia riguardante l’arte figurativa; osservarlo nell’appassionata ricerca del bello, essenziale supporter del piano estetico, che per lui non fu mai espressione retorica di vuoto formalismo ma, al contrario, affinamento del gusto ed elevazione dello spirito. Il significato genuino, quello vero, senza sovrastrutture e senza fronzoli, egli lo cercò dovunque potesse trovarlo, coglierlo, trasformarlo in lucente pittura. Come per Verga, contadini e campagna, pescatori e mare, furono parte fondamentale della visione artistica…Ma, gli uomini che lavorano duramente le assetate zolle del terreno o nelle acque del mare, non si arrendono, non voltano le spalle al loro ingeneroso destino; si disperano, questo sì, ma non si danno per vinti! Chi ha fatto rivivere questo scampolo di umanità nel mondo duraturo dell’arte pittorica ci ha lasciati per sempre. Giovani e meno giovani, amici o semplici conoscenti, privi di tal faro di luce ne soffrono l’incolmabile perdita”.

Catania, Trezza, i notabili di mezza Sicilia, giornalisti venuti dal nord, amici ed estimatori giunti d’ogni dove, affluirono per rendergli l’ultimo saluto.

La piccola chiesa di San Giovanni ne accolse solo un limitato numero; una folla commossa restò fuori, sfiorata dalla brezza che si era infiltrata fra la gente fino al sagrato e recava un alito di gelo.

Poi ci si mosse in colonna fino all’estrema dimora: da quell’altura tutto il mare di Trezza era visibile, i “faraglioni”, il porticello, le barche, i pescatori, le reti da asciugare. Quel mondo era stato ed era suo, di Roberto Rimini. Da tempo, egli l’aveva scelto, perché lo spirito, che non muore, potesse goderne la bellezza anche dopo!

Il ricordo dell’evento doloroso riemerge aggressivo nella mia memoria correlato com’è all’inaugurazione della “Mostra Antologica” del Maestro, ordinata in questo cinereo novembre nelle sale de Le Ciminiere, Galleria d’Arte Moderna di Catania.

Dopo la dipartita del grande pittore, la pubblica amministrazione, sollecitata dall’unanime sentimento popolare, gli tributò significative onoranze con l’intitolazione di una scuola media statale di Acitrezza e, successivamente, con la realizzazione di una rassegna di opere allestita nel palazzo comunale di Catania (dicembre 1975) che ebbe sperticati consensi e notevole successo di visitatori.

Ma non poteva bastare.

L’esigenza d’una rassegna antologica si era da anni avvertita e, finalmente, oggi, grazie all’impegno d’un gruppetto di uomini eccellenti, eccola nelle grandiose dimensioni che la strutturano.

I nomi di Nello Musumeci presidente della Provincia Regionale di Catania, di Giuseppe Benanti presidente della SIFI e moderno mecenate, di Giovanna Rimini, insonne studiosa d’arte, di Giuseppe Maimone, coraggioso editore, sono sulla bocca di tutti nell’unanime coro elogiativo. Tutti, infatti, hanno colto il significato morale e culturale della splendida iniziativa, l’hanno sostenuta con entusiasmo, visitata con diletto, riportandone impressioni ed emozioni indimenticabili.

Rimasto ai margini della concreta realizzazione della rassegna, ne ho tuttavia acquisito i forti legami sentimentali, come fossi un membro della famiglia Rimini.

Il giorno dell’inaugurazione, non ero fra i presenti. Non amo la confusione e ho ignorato l’invito.

Accostandomi alle opere del grande amico, mi sarei inevitabilmente trovato a tu per tu con lui…Volevo essere solo in quella singolare circostanza…Lui, le sue opere, ed io.

Un lunedì mattina, infatti, approfittando della grigia giornata, che minacciava di diventar sempre più brutta, mi recai a visitare la rassegna.

Mi presentai al personale addetto alla custodia, dissi che volevo restare in solitudine per meglio gustare la bellezza delle opere. Il primo impatto coi dipinti, esposti nelle diverse gallerie, a diverso livello e d’ampiezza diversa, fu d’autentica ubriacatura: volevo, ma non potevo accogliere dentro di me, non dico la sintesi dell’insieme, ma neppure i frammenti visivi delle opere note e di quelle che osservavo per la prima volta.

Mi fermai a riordinare le idee, a ricomporre un equilibrio, fisico e metafisico, turbato dall’ampiezza d’una raccolta che supera ogni ottimistica previsione, toglie il respiro, esalta i sensi, diventa favola, poesia, gioia dell’anima.

Fuori pioveva cenere della Montagna, dentro brillavano raggi di luce dorata, ed io ne avvertivo lo stridente contrasto.

Ripreso l’andare, indugiai passo dopo passo a fronte d’ogni opera, già persuaso di non potercela fare in unica volta.

L’incantevole Paesaggio dell’Isola Lachea m’indusse a soffermarmi più del necessario, utilizzai una poltroncina, lì accanto predisposta, nell’intento di confrontare l’originale col corrispondente cliché del catalogo che mi ero portato appresso.

Quel paesaggio mi attirava con forza medianica.

Perché?

Forse perché, nella primavera del ’54, mi era accaduto di rintracciare l’Artista mentre dipingeva quella tela; forse perché le sue marine mi toccano il cuore in modo particolare; forse per altro motivo che non so spiegare. Fatto sta che, invece di sfogliare il catalogo, socchiusi gli occhi e pensai, fortemente pensai a lui, al mio incomparabile amico, all’artista che ora, circondato dalle sue creature, vedevo e sentivo assai più grande di prima; ora, sorretto dalle opere, lo vedevo immenso!

– Oh, Roberto – dissi parlando a mezza voce – quando si è giovani non si è capaci di commisurare tutto il talento di un artista come te. E io ero giovane nei tempi felici quando mi accoglievi in casa tua!

Mi parve allora d’avvertire i passi ovattati d’una persona che si avvicinava verso di me.

Mi voltai, guardai e…un brivido mi corse per la schiena: all’impiedi, dinanzi a me, in carne e ossa, lieto e sorridente, c’era lui. Ci guardammo, per alcuni istanti in silenzio. Poi, il timbro della sua voce, con le sapute sfumature, entrò suadente nella mia coscienza: – Mio caro Lucio – disse – mi hai chiamato e sono venuto. Ti trovo invecchiato e appesantito. Dovevo immaginarlo!

Lì per lì, ebbi la sensazione di sognare, di volare in cieli proibiti, di precipitare nel vuoto d’una vertigine; poi, rasserenato, trovai il coraggio di rispondere.

– Roberto! – balbettai – Tu, invece, sei lo stesso…tale e quale ti vidi l’ultima volta, quando, senza preavviso, t’incontrai a casa…

– Mio carissimo – interruppe il favoloso interlocutore – sono qui per aiutarti a ricordare. L’incontro senza preavviso nel mio studio di Trezza si riferisce al 3 febbraio del ’71. Ero intento a completare una sanguigna d’ambiente rustico; mi cogliesti, seduto com’ero di tre quarti, col clic della tua Zeiss: Roberto – dicesti – ti ho destinato l’ultimo fotogramma di questo rotolino…ti farò vedere appena pronto.

Quell’immagine, scattatami a tradimento, io mai la vidi, per il semplice e valido motivo di essere uscito dal vostro tempo tredici giorni dopo, vale a dire il 16 dello stesso mese. Non costruita, spontanea, credibile, la vedo ora, nell’ultima pagina del catalogo, e dev’esser tanto apprezzata dall’editore d’averla bissata nell’ampio risvolto della copertina!

Roberto sorrideva e mi guardava fisso negli occhi.

– Peccato – commentò – che vi appare come una fotografia d’ignoti parenti, figlia di nessuno! Ma tu non farci caso…fossero solo queste le dimenticanze degli uomini!

Poi, seguitò: – Perché mi osservi con insistenza? Come mi trovi dopo i trent’anni della mia assenza? Temevi forse di trovarmi cadente? Non invecchio più! Neppure se volessi!

– Ma allora – azzardai – te la passi bene!

– Certo! – rispose – Di là il male non esiste. Voglio dire: Per me non esiste! Ma ascolta, caro Lucio. Toccato dalla tua insistente chiamata, sono venuto per scambiare quattro chiacchiere, non per masticare filosofia. Mi hai inteso?

Quelle parole mi pesarono come un garbato rimprovero.

Volevo scusarmi, non ce ne fu di bisogno: Roberto leggeva nel mio pensiero.

– Comincia tu – disse deciso – comincia tu a parlare della Mostra. Che te ne pare?

Avrei voluto trovare parole di robusto significato, convincenti, illuminanti. Non le trovai, tanto mi turbava la sua presenza: – Roberto – seppi soltanto dire – è così affascinante questa rassegna, così piena di te, così ricca d’arte che l’abbraccerei, se potessi, in un sol palpito d’amore!

A questo punto mi bloccai. E, per un istante, credetti di smarrirmi in una dimensione onirica senza sbocchi. Ma non sognavo, dall’esterno captavo la luce del giorno e dall’ingresso giungeva la voce del personale di servizio. No, non sognavo. La presenza di Roberto non era fittizia. Mi stava davanti, vivo, parlante, vero in ogni particolare fisico, in ogni sfumatura intellettuale e spirituale.

Aguzzai lo sguardo: indossava uno spezzato di lana chiaro e pantaloni blu, camicia turchino scuro, papillon punteggiato di stelline lucenti, il tutto di sobria eleganza.

– Oh, Dio! – pensai – così era vestito l’ultima volta che lo incontrai… ora siamo insieme, lui, io, le sue opere! E siccome restava all’impiedi, mi alzai di scatto e l’abbracciai.

Un sorriso gli illuminò il volto, mi strinse la mano e parlò.

– Perché ti sei alzato? – disse – Perché?

La sua voce, dolce, affettuosa, appena sfumata di morbida ironia, mi rallegrò il cuore.

– Stando all’impiedi – soggiunse – non mi stanco. Tu, sì, a quel che vedo! Sediamoci.

Accostò una poltroncina, e ci sedemmo l’uno accanto all’altro.

L’intervista

Ora toccava a me chiedergli un giudizio sulla Mostra, e ne approfittai.

– È notevole – affermò – Chi può dir di no? Non ne sono lusingato perché, ormai, non posso più esserlo. Ma gratificato nello spirito, sì. Se ne parlava…parole, riunioni, consensi, dissensi, cose che ben conosci. Finalmente, ecco l’impresa realizzata. Sono grato a quanti hanno contribuito a tradurla in realtà. Mancano numerose opere, alcune tuttora in città, altre negli Stati Uniti d’America…Non era facile convogliarle in una rassegna antologica: il dottor Maimone ne sa qualcosa…mi rendo conto…a Catania tutto diventa difficile, tutto diventa opinabile, tutto si spinge fino all’ultimo minuto di tempo utile. Salvo, poi, a proteggersi con la corsa, e magari con l’addossare ad altri eventuali pecche e responsabilità.

Io, muto a orecchi spalancati. Lui, pacatamente, riprese: – Sai qual è il fiore all’occhiello della Mostra?

– La tempera, custodita nell’apposito cristallo dell’ingresso?

– È il catalogo, invece. Opera pregevole, da illuminare l’editoria siciliana. Non soltanto per il numero dei cliché raccolti, non soltanto per la felice impaginazione, per la resa, la trasparenza, la selettività d’ognuno e di tutti i colori, ma anche per un paio d’altri aspetti che mi par giusto indicare. In primo luogo, disarticolata la Mostra, tu la ritrovi nel catalogo, con maggior numero di dipinti e più dettagliate indicazioni. E pure, se vogliamo, con maggior possibilità di approfondimenti sull’iter estetico-storico dell’Artista. E qui non posso non rilevare quanto è stato scritto in apertura della citata pubblicazione: dalla presentazione di Nello Musumeci, alle toccanti parole di Pippo Benanti che, in compagnia del padre, veniva da giovinetto nella mia “bottega” di Trezza. Il sentimento dell’amicizia lo spinge a scrivere “Rimini è un grande catalizzatore di energia positiva che sa toccare le più diverse e dure corde del sentire umano. Per questo, chi possiede un Rimini non se ne priva quasi mai, perché la forza emotiva delle sue opere rappresenta un tesoro, tanto prezioso quanto inestimabile sul mercato dell’Arte e su quello dell’anima!”. E Rimini sono io…È di me che scrive Benanti, o mi sbaglio? Se abitassi ancora dalle vostre parti, mi sentirei lusingato! E ti par poco quanto scrive Giuseppe Giarrizzo? Un saggio di grosso spessore, degno dell’ottica sua grandangolare…Dico il vero: l’ho ritenuto a memoria a mano a mano che lo andava pensando, prima che l’indagine sua diventasse parola scritta, prima che il testo fosse in possesso dell’Editore. Lo stesso dicasi per le pagine di Valter Pinto, questo insonne indagatore e trasvolatore di alti cieli, sensitivo di classica fattura che unisce mirabilmente prosa e poesia. Ma davvero Brancati pensò, disse e scrisse ch’io abbia avuto l’indispensabile “lume” per illuminare le opere degli altri? Si licet componere le piccole cose alle grandi, direi che si è adoperato un metro assai benevolo a favor mio: quante cose sono state dette sul conto di Dante che, di fatto, neppure sfiorarono la sua mente? E lasciami infine esprimere tutto il grato sentimento nei riguardi di Maria Giovanna Rimini, la mia cara nipote Gianna, il cui lavoro lungo, delicato, certosino, talvolta persino ingrato e scoraggiante (animato sempre dall’amore per la pittura e per lo zio autore) il cui estenuante lavoro – dicevo – ha contribuito in maniera determinante a realizzare questa rassegna!

A questo punto, Roberto mi fissò con occhi interrogativi, in attesa d’una risposta. E io ch’ero sul chi vive: – Roberto, maestro indimenticato d’arte e di signorilità, tu sei davvero, sei stato e continui a essere, fonte di luce che filtra e irrompe nei tuoi dipinti, nel tuo sguardo, nei tuoi comportamenti. Oggi, dopo trent’anni dall’ultimo incontro, ti ritrovo com’eri, non soltanto nell’aspetto fisico: nobile e generoso nel sottovalutare i difetti altrui, nell’accogliere le punture di spillo di certi critici, pochissimi in verità…

– Mio caro – interruppe l’ineffabile interlocutore – chi parlando e scrivendo di me dice e scrive, pur senza entusiasmo, che sono rimasto coerente col mio stile, afferma il vero. L’ampiezza degli orizzonti che si schiudono al mio essere, nell’indicibile posizione in cui mi trovo, conferma che, sia nell’arte sia nella vita, la coerenza è grande cosa, nisi fallax est! Sì, sono stato e sono coerente, pur se talvolta abbia ritenuto di cambiare la tela sulla quale dipingevo. La tavolozza, mai! Ma perché indugiamo sugli immaginari safari nella savana dell’arte? Torniamo ai nostri ricordi, piuttosto.

Si concesse una breve pausa, e riprese: – Che caro! Tu venivi a trovarmi anche d’inverno…c’erano gli amici estivi…questi ultimi non li ricordo; gli altri sì: Enzo Maganuco, Vittorio Casaccio, Vincenzo Guarrella, Salvatore Nicolosi, Tanuzzu Longo. Oh, i primi anni eroici di Mascalucia! La corte del palazzo Rapisarda di Sant’Antonio; le sortite en plein air a dipingere i cieli settembrini sullo sfondo del campanile di San Vito; i Caviezel, i Benanti, i De Luca fra i primi ad arrivare; Nello Milluzzo, Nunzio Sciavarrello, Ciccio Contrafatto fra i primi a piazzare i cavalletti; la “colazione sull’erba” nella campagna dei baroni ospitanti, in pieno sole, ché, nel giorno della pittura a Mascalucia, non piovve mai…!

La rimpatriata

Ebbi l’impressione che i ricordi gli smuovessero la profondità dell’anima.

E lui, preso fiato, continuò: – Tu giungevi pure all’improvviso, di mattina, e nei giorni feriali…ma, se preannunciavi l’arrivo, ti attendevo con gli occhi sulle lancette dell’orologio…e mi pareva che arrivassi sempre in ritardo…e te ne andassi sempre in anticipo!

– Carissimo Roberto! – ritenni d’interferire – Ciò che stai ricordando è vero e mi tocca assai. Làsciami aggiungere che non ci fu una volta, dico una sola volta, che non tentassi di trattenermi…Dieci minuti – imponevi – dieci minuti, ancora dieci minuti! Te ne vai così presto? Dovrò allungare il collo per quanto? Una settimana? Di più? Caro, carissimo Roberto! Che groppo mi ritrovo in gola, ricordando quei giorni!

Accettò l’interruzione con cenni di assenso, e riprese a parlare.

– Ti attendevo lavorando, leggendo, ascoltando musica, fumando una sigaretta all’insaputa della mia povera Adele: – Questo fumo – diceva – fa male, a te e pure a me. Mi fa tossire! Non senti?…Cara, dolcissima Adele!…Già, la mia famiglia…tutta unita attorno a me, compatta, tenera, affiatata: d’estate giungevano Laura e Dominique da Parigi, Rosalia da Siracusa, Saverio Fiducia dal suo quotidiano passeggio sentimentale. Talvolta mancava all’appello il futuro professore universitario di fisica. “Dov’è Memi?” chiedevi tu, appena arrivato. Ed io: “A villa Isabella, al Canalicchio. Lo sai, studia con Emilio Migneco, figlio di Enrico, fraterno amico di tuo padre! Tuttavia, se proprio ci tieni, possiamo chiedere notizie a Dominique, stanno quasi sempre insieme”. E Dominique, famoso per l’olimpico sorriso: “Egli era chèz nous un minuto fa. Il retournera bientot. Ne vous dèrangez pas!

Quel caro mio genero francese, che giovane amabile! Si preoccupava ch’io mi preoccupassi della momentanea assenza di Memi! Perché dovevo? Memi, studioso, saggio, pulito, brillava a scuola e nelle mie speranze…tutte realizzate…il professor Emanuele Rimini: scienza e nobiltà d’animo! Eri tu, piuttosto, che chiedevi di lui, tu, mio caro, che lo sollecitavi a parlare del “suo” von Braun, ricordi?

– Come no, Roberto? Ricordo, sì. Erano giorni memorabili, tutti a parlare dell’imminente conquista della luna, degli americani, del razzo “Saturno”, dello scienziato tedesco così importante nella considerazione di tuo figlio. Correva, infatti, il mese di luglio del ’69, quando, a proposito di Wernher Braun, dicesti: “Ho grande stima dell’intelletto di questo famoso scienziato, e ne ho altrettanta del suo cuore. Braun è un poeta, scrive versi, nutre sentimenti, oltre che disegnare razzi…Uno scienziato poeta è oggi un miracolo! Poeta e musicologo, secondo una rivista d’arte americana, questo è oggi Braun!”.

Sviammo il discorso sulla musica, e si parlò l’intero pomeriggio di un altro tedesco: Ludwig van Beethoven.

– Già, già! – sorrise il fascinoso interlocutore – quella volta gli dedicammo un intero pomeriggio…e l’indomani me lo portasti in casa, con un pezzo su “La Sicilia”: Beethoven a Trezza in casa Rimini! Lo ricordo parola per parola. Qual piacere provai nel leggerlo, caro Lucio!

Lo fissai, intensamente.

Socchiuse gli occhi, e recitò: “Che ne dici, Roberto, di Beethoven? [così si apriva il mio pezzo] Che ne dico? Ma chi è Beethoven? Chi oggi lo conosce o riconosce? E, d’altra parte, siamo giusti: Può il rumore riconoscere la musica? Oggi il rumore prevarica sulla musica. Che c’entra Beethoven?”.

A questo punto, Roberto s’alzò all’impiedi, si allontanò di qualche passo, verso un’ideale vista sul mare: ebbi l’impressione che stesse recitando un passaggio del mio pezzo.

Restai a fissarlo, intensamente.

Egli, infatti, osservando idealmente il “suo” mare, quel mare di Trezza già sì azzurro, trasparente e profumato d’alghe, tornò a ribattere: – Tutto decade in questi spietati giorni. Questo mare si è fatto giallastro! Vieni, mio caro Lucio, vieni a vedere! Una coltre di cemento minaccia gli scogli, sopraggiunge con la “circonvallazione”, coi motori, gli scarichi! Il mare cambia colore, e tutto si copre di scuro!

Il suo volto si era improvvisamente incupito. Ora parlava del presente.

– Mi sembra di essere su di un piano inclinato – soggiunse – scivoloso, senza appigli, senza oasi di ristoro…La mia vita è stata come una tavolozza ricca di colori squillanti e di mezzetinte sfumate; come un concerto permeato di note alte e di semitoni bassi, di pieni d’orchestra e di assolo di violini. La bellezza ci volta le spalle, se ne va! I nostri figli non sapranno mai com’era! Natura, colore, armonia…No, non lo sapranno mai…non sapranno immaginarla!

– Roberto – lo pregai – ti sei impigliato in alcune schegge negative degli anni Sessanta, e tutto mi fa pensare che tu ne stia tuttora soffrendo…

– Come potrei soffrirne? – disse, sorridendo. – Ora è sempre luminosa la mia “tavolozza”. Passato e futuro si fondono e confondono insieme… Penso a Donata, e la penso pur sempre bambina. A proposito – soggiunse d’impeto, curvandosi verso di me – ti ho vinto la scommessa…Ricordi la scommessa sulle sembianze di Donata nell’estate del Sessanta?

[Donata, primogenita di Dominique Sanson e Laura Rimini, nata a Parigi, quando giunse per la prima volta in casa dei nonni materni a Trezza, aveva poco più di un anno. La scommessa si imperniava sul fatto di ritrarla: lui col pennello, io con l’obbiettivo fotografico].

– Ricordo, sì. Lavorammo all’insaputa l’uno dell’altro. Io colsi un tenero aspetto della bambina mentre si svegliava tra i cuscini della carrozzina. Tu la dipingesti in piena luce, viso solare, occhi brillanti, un cappellino di paglia colorata in testa: una vera sciccheria! Com’era da prevedersi, il tuo pennello stravinse, accettai la sconfitta, ci facemmo sopra spiritosi commenti e un sacco di risate!

Questo episodio, ricordato con nostalgia d’ambo le parti, aveva restituito al virtuoso mio compagno la consueta serenità. Ma l’aveva anche spinto ad accomiatarsi. Mi strinse le mani fra le sue. Erano lisce quelle mani, morbide, vive, calde, e da lui a me trasferivano l’indicibile ricchezza del suo sentimento. Mi si avvicinò quasi fino a sfiorarmi: – Ciao Lucio – sospirò lievemente – abbi cura di te, non…

– Scusami, Roberto. Non ho udito le ultime parole! gli gridai dietro, mentre si allontanava.

Si soffermò di colpo: – Ho detto di non parlare con nessuno di questo nostro incontro. Non ti crederebbero!

(in Uomini e fatti di Catania, Catania 2003, Giuseppe Maimone Editore)

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